Un singolare trio chiude la stagione dell’associazione culturale “Maestro Rodolfo Lipizer” di Gorizia. Il Teatro “L.Bratuz” è gremito la sera del 16 maggio, sul palco il Trio Zigano composto da Enzo Ligresti al violino, Roberto Daris alla fisarmonica e Federico Mistè al contrabbasso. Il percorso proposto dal Trio Zigano unisce varie influenze musicali che comprendono sia la tradizione classica che quella appartenente alla cultura etnica. Proporre in un programma Brahms, Bartok e Liszt che, pur appartenendo alla cerchia dei musicisti classici, sono riusciti a trasportare all’interno delle loro composizioni quello che è lo spirito di un popolo, cattura l’essenza di una terra. In un canto rapsodico ed istintivo ne consegnano la traccia più vera e densa di quegli accenti che sono essenza di vita vissuta. Convince l’interpretazione di Brahms da parte del trio, la scelta di alcune danze ungheresi evidenzia bene lo spirito che anima ciascuna di esse con il forte contrasto tra la malinconia affidata a cantabilità accorate e la spensieratezza che pare invitare alla danza in altri momenti. Tra tutte la nota “Danza ungherese n. 5” unisce il canto epico ad un incalzante ritmo che nella versione proposta dai tre musicisti diventa un trascinante inno alle terre ungheresi. L’unione della cantabilità del violino con l’imponente sonorità della fisarmonica ed il cadenzato procedere del contrabbasso conferiscono a questo Brahms un aspetto meno rigido, lontano dalle sonore masse orchestrali e legato invece ad una dimensione più intima. Cogliere le intenzioni del compositore nella sua idea primordiale e più diretta è una bella sfida che il Trio Zigano affronta con spigliatezza e coraggio ed è nel resto del programma che la scelta proposta si rivela vincente, perché se pezzi come la “Czardas” di Monti sono impressi nella memoria di tutti come esempio massimo di un’identità musicale ben definita, vero è che la bravura degli interpreti nel saper dosare i vari elementi del linguaggio musicale deve obbligatoriamente far perno su qualcosa di più intuitivo ed ineffabile affinchè il messaggio musicale arrivi a tutti. Piace questa modalità di porsi sul palco, con spontanea semplicità che aiuta il pubblico nel calarsi all’interno di un contesto particolare. I racconti che Daris propone su ciascun pezzo sono tasselli che permettono di gustare a pieno le opere proposte e sono proprio quegli aneddoti che riescono a completare un quadro racchiuso nell’immaginario. Sono momenti in cui il pubblico è intento a costruire nella sua mente un quadro che, oltre ad essere sonoro, riesce a diventare visivo, regalando la fantasia di costruire immagini, ed è questa stessa idea ad animare “Komm Zigani” di Kaman. Ancor più incisive le “Danze popolari rumene” di Bartòk, migliore esempio di come un compositore classico sappia trasporre con il cuore la parte più vera dell’appartenenza di un popolo. Proprio la tendenza a fare della cantabilità qualcosa di fluttuante e mai statico riesce a rendere vivaci e frizzanti queste pagine, ed è proprio attraverso questi elementi che si può misurare lo spessore degli interpreti. Ottima la partecipazione molto sentita che in ciascun brano riesce a lasciare un segno, le danze rumene contengono un’essenza quasi magica ed arcaica che si aggrappa ad una tradizione storica facendola vivere di vita propria, lontana dagli archetipi, propria del sentire popolare. Anche nel secondo movimento del Concerto di Bartòk dal titolo “Giuoco delle coppie” l’animo del folklore tira le fila della narrazione inserendo contrasti anche attraverso l’uso di percussioni che simboleggiano un cerimoniere di corte. Nella seconda parte del programma il trio zigano sorprende, nel percorso tracciato si intuisce un nuovo momento: sembrerebbero abbandonati gli accenni al mondo più squisitamente classico per iniziare ad addentrarsi in nuovi spazi ed in diverse concezioni musicali legate idealmente ad un sentire che è tipicamente zigano. “Kolo” finale dall’Opera “Ero s onoga svijeta” in cui Daris propone un pezzo da solista alla fisarmonica apre le porte ad un nuovo modo musicale, fatto di accenti che danzano assieme alla plasticità dei cantabili. La fluidità della musica permette di percorrere un iter che sembra volersi aggrappare a quei suoni lontani, ascoltati quasi per caso in una metropoli, senza dimenticare la loro storia, ed anzi custodendola nei frammenti così orecchiabili da sembrare già presenti da qualche altra parte prima di essere catturati in quella partitura. Dinicu, nei tre brani proposti “Hora staccato” (con il sorprendente ed inusuale picchiettato in giù del violinista Enzo Ligresti), “March ora” e “L’Allodola”, inserisce un elemento che cala tutto il contesto in un’aura festosa e particolare. Il virtuosismo strumentale si manifesta qui con creatività baldanzosa ed è la verve musicale più scoppiettante a prendere il sopravvento. Anche nei momenti in cui le sonorità si affidano alla spigliatezza degli interpreti, specialmente nell’evocare il canto dell’allodola, tutto rimane ancorato ad un’ironia dall’audace freschezza così come in Hubay di “Heire Kati”. Conclude il concerto la celeberrima “Rapsodia ungherese n. 2” di Liszt in cui le varie sezioni scandiscono bene momenti diversi di tensione musicale, dalla solennità iniziale che pare voler tenere desta l’attenzione dell’ascoltatore, alla scanzonata libertà che sfida le capacità degli strumenti di stare al passo tra un virtuosismo mai nascosto ed un’espressività che si rivela a voce piena. Pubblico entusiasta acclama il bis.
Vincenza Caserta
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